SUL MIO COMODINO:
UN CRONISTA SPECIALE RACCONTA
LA SPECIALE STORIA
DI UNA SOPRAVVISSUTA
ALLA TRAGEDIA DELL'ANDREA DORIA

testo di Salvatore Giannella

Ricordate l’immagine del cronista ideale evocata da Enzo Biagi per raccontare lo storico sbarco degli Alleati in Normandia? Come avrebbe raccontato lui quel tragico evento, con migliaia di paracadutisti lanciati sulla costa francese, con due milioni di soldati che, nel giorno più lungo, si impegnarono per liberare la Francia e l’Europa dal nazifascismo? La risposta di quel maestro di giornalismo fu sorprendente: “Avrei raccontato idealmente quello sbarco con la storia e con gli occhi di un solo protagonista, quel paracadutista che rimase impigliato con il paracadute al campanile di una chiesa e da lì osservò il più grande sbarco anfibio nella storia dell’umanità”.

Sergio Barducci (San Marino, 1957; nella foto d’apertura), già bravo giornalista televisivo (era responsabile del telegiornale per la Radiotelevisione della Repubblica di San Marino), da qualche anno felicemente sbarcato nella squadra degli scrittori infilando libri di successo uno dietro l’altro*,  ha scelto una dei 1.134 passeggeri imbarcati sulla più bella nave della Marina mercantile italiana, il transatlantico Andrea Doria, per raccontare una storia di umanità e oltre. Una storia vera, quella ricostruita con parole efficacemente fluide, nel libro “La vita oltre la paura“, (edito dalla bolognese Minerva, pagine 206, euro 16,90).

La copertina del libro di Sergio Barducci "La vita oltre la paura". QUI IL LINK PER ACQUISTARLO: "LA VITA OLTRE LA PAURA" Con la stessa casa editrice, Barducci (pendolare tra la nativa San Marino e l'abitativa Cesenatico) ha pubblicato in precedenza accattivanti romanzi e biografie: Tra Levante e Ponente. Ti parlo di noi, Una vita piena di futuro, Cammina e arriverai al sole, Arrigo Sacchi.Oltre il Sogno (semifinalista al premio Bancarella), Nel tuo silenzio e Rincorsi dal vento (la storia della mitica Nove Colli, da mezzo secolo richiamo mondiale di ciclisti).

Protagonista è Anna Rosti, una giovane sposa che, dopo una lunga trafila burocratica per ottenere i permessi necessari, s’imbarca nella famigerata “classe turistica” (destinata ai viaggiatori più poveri) per raggiungere New York, dove lo attende Marino, il marito sposato pochi mesi prima.

Si parte dal porto di Genova, il 17 luglio 1956, con arrivo previsto a New York all’alba del 28 luglio, ma alle 23:10 del 25 luglio, mentre la maggior parte dei passeggeri dorme, la nave rompighiaccio svedese Stockolm, guidata da Ernest Carstens-Johannsen,  squarcia il fianco destro della nave italiana e scatena il panico. Morirono 51 persone.

La donna con cui Anna divideva la cabina, incinta e con un figlioletto di 3 anni, le mise il bimbo tra le braccia: “Tu corri più veloce, portalo con te”.

Anna Rosti ai tempi della tragica traversata con l'Andrea Doria e nella recente festa per i primi 50 anni di matrimonio con il suo Marino.

Quarant’anni dopo, rientrata nel suo paese natìo, qualcuno suona il campanello della casa di Anna. Apre la porta e un uomo distinto le dice: “Lei non può ricordarsi di me, ma io sono quel bambino che lei ha salvato la notte del naufragio dell’Andrea Doria“. E, come se il tempo non sia passato, si abbracciano piangendo.

Una testimonianza emozionante, che si legge tutto d’un fiato. Va ad aggiungersi, con la sua dignità letteraria, alla grande mole di storie raccolte lodevolmente presso il genovese Galata Museo del Mare: qui un’apposita sezione, voluta dal direttore e curatore scientifico Pierangelo Campodonico,  ricorda storie e aspetti meno noti della “nave più bella del mondo” guidata da un capitano d’eccellenza come fu Andrea Calamai. Un galantuomo sulle cui tracce mi posi nel lontano 1973, contribuendo a rendergli il meritato onore che una malintesa ragione di Stato aveva appannato. Ho rintracciato quell’articolo scritto a Genova in casa Calamai e ve lo ripropongo, tratto da Novella 2000 allora felicemente diretto da quel maestro di giornalismo che è stato, non solo per me, Paolo Occhipinti: perché quando ricordo mi sento più vivo.

MEMORIA ATTUALE/UNA MIA INTERVISTA DEL 1973

“MIO FRATELLO PIERO CALAMAI, COMANDANTE

DELL’ANDREA DORIA, AVEVA RAGIONE”

Piero Calamai (Genova, 1897 – 1972) è stato un comandante marittimo e militare, capitano superiore di lungo corso nella "Italia Società di Navigazione". Era al comando dell' Andrea Doria nella notte in cui affondò, alle 23:10 del 25 luglio 1956. Al naufragio dell'Andrea Doria - La verità tradita è dedicato un documentario trasmesso in Italia nei programmi televisivi Ulisse di Raitre e Atlantide di LA7. Il capitano riposa nella cappella di famiglia, nel cimitero di Sant'Ilario, sulle alture di Genova Nervi, accanto al padre Oreste, al fratello Marco e alla moglie Anna.

In quel 1973 un libro di un ingegnere americano ha riabilitato il comandante dell’Andrea Doria.  Guido Calamai, fratello di Piero, l’uomo messo ingiustamente sotto accusa per la tragedia della nave italiana, accettò di commentare i clamorosi risultati dell’inchiesta di Carrothers. Questi, un ingegnere navale americano, ha potuto provare in un libro che l’affondamento della nostra ammiraglia fu provocato esclusivamente da un errore di rotta del pilota della svedese Stockolm. “Due giorni prima di morire”, disse Guido a me cronista, “mio fratello seppe che Carrothers aveva ristabilito la verità. Ma non aveva bisogno di questa conferma. Da sempre sapeva di essere innocente”.

testo di Salvatore Giannella / da Novella 2000, marzo 1973

GENOVA – “L’inchiesta di quel tecnico della Marina statunitense ha confermato quanto noi, in famiglia, avevamo già intuito. Mio fratello è stato il capro espiatorio di quella oscura vicenda che è rimasta per noi italiani l’affondamento dell’Andrea Doria. Lui ormai è morto, ma non è troppo tardi perché gli sia resa giustizia”.

E’ la prima volta che un Calamai rompe la cortina di silenzio di cui si erano circondati Piero, il comandante dell’allora ammiraglia della flotta italiana scomparso di recente, e la sua famiglia.

Sono trascorsi quasi 17 anni da quella notte tragica. L’Andrea Doria colò a picco il 26 luglio 1956 presso l’isolotto di Nantucket, nell’oceano Atlantico, in seguito allo speronamento da parte della nave svedese Stockolm. Dopo le operazioni di salvataggio, 51 persone non risposero  all’appello.  L’ultimo a lasciare la nave era stato lui, il comandante genovese.

Perché avvenne il disastro e di chi fosse la colpa, non l’ha mai voluto dire: per 16 lunghi anni si è chiuso nel più assoluto silenzio, sperando che a fare piena luce sulle responsabilità ci pensassero le varie commissioni d’inchiesta tra le quali quella nominata dal nostro ministero della Marina mercantile. Che, puntualmente, com’è nella migliore tradizione italiana, non è mai pervenuta a qualche conclusione: e, ammesso che una ce ne sia stata, non è mai stata resa nota.

Piero Calamai, virtualmente degradato e ormai dimenticato da tutti, “si è lasciato andare”, come dice ora il fratello, “come chi non ha più nulla da chiedere alla vita”. E’ morto, in silenzio, nell’aprile scorso, 1972. E’ morto raccomandando alle due figlie di continuare a restare nell’ombra, di non “fare chiasso”. E il cronista che le avvicina (la maggiore, Marina, ha 36 anni, una laurea in lettere, un marito direttore di banca e due bambini, vive a Pietra Ligure; l’altra, Silvia, ha 33 anni, vive col marito e due bambini nella casa paterna, vicino al Lido genovese), s’accorge con quanta fermezza esse intendono mantenere fede alla parola data.

Ad accettare un colloquio a distanza di un anno dalla morte del “comandante” è stato Guido, il fratello più anziano. Settantasette anni, ex maggiore dell’esercito, con due braccia ormai fuori uso (uno glielo ha troncato una bomba sul campo di battaglia, l’altro è paralizzato da una misteriosa malattia), ci ha accolti nel suo appartamento, nel quartiere residenziale di Albaro. Con lui sono la moglie e la sorella Clelia.

Dice: “Sono venuti in molti a trovarlo, in questi ultimi 16 anni, ma lui, Piero, non ha mai voluto parlare con nessuno di quello che portava dentro, nel cuore, dal giorno del disastro  A chi gli chiedeva come mai la ‘sua’ nave, quella che pareva un gioiello inaffondabile, avesse potuto colare a picco e soprattutto di chi fosse la responsabilità, si limitava, spesso per non fare lo scorbutico, ad accennare a particolari insignificanti e già noti: che la nave aveva impiegato 11 ore per andare giù, che lui aveva abbandonato la nave per ultimo insieme al secondo ufficiale. Dei dati tecnici aveva parlato solo ai membri delle commissioni d’inchiesta che dovevano far luce piena sul disastro”.

Continua Guido Calamai: “Anche con noi di famiglia preferiva non parlare di quella pagina della sua vita. L’unico col quale una volta si è lasciato andare a qualche confessione è stato l’altro nostro fratello, Marco, quello che faceva l’ammiraglio. Lui, più di noi, lo poteva capire, dato che lavorava nello stesso settore. Anche Marco si è portato il segreto nella tomba: è morto l’anno successivo all’affondamento cadendo in mare dal suo yacht. Il suo corpo non è stato mai più ritrovato. Piero, comunque, si sentiva la coscienza a posto. Parecchie volte mi ha fatto capire che sentiva di aver fatto tutto quello che un buon comandante può fare per la propria nave. E ora, finalmente, tutta la verità sta venendo piano piano a galla. E’ una verità scomoda per parecchi ma non per lui. Mio fratello, dalla scrupolosa inchiesta condotta da un tecnico della Marina statunitense, ne esce fuori con le mani pulite: la colpa del disastro fu dell’ufficiale di guardia della nave svedese che speronò la nostra ammiraglia”.

L’inchiesta cui accenna Guido Calamai e quella di un ingegnere navale e professore presso l’Accademia della Marina mercantile degli Stati Uniti, John C  Carrothers. il suo studio, pubblicato nel dicembre scorso su una rivista specializzata e ora in giro per il mondo, viene ritenuto “serio e attendibile” negli ambienti marinari. Le conclusioni dell’ingegnere americano sono in contrasto con i risultati delle prime inchieste, risultati di dominio pubblico. Sei mesi dopo il disastro, infatti,  l‘Italia, la società armatrice dell’Andrea Doria, e la consorella svedese si erano messe d’accordo per assumersi una parte uguale di responsabilità. Era la soluzione più sbrigativa per far cessare le polemiche e per “insabbiare” un’inchiesta informativa dell’autorità giudiziaria americana (aperta nonostante il disastro fosse avvenuto in acque internazionali) che stava mettendo in luce troppe contraddizioni. L’istruttoria si aprì nel mese di settembre davanti a un tribunale di New York: la società Italia chiedeva 30 milioni di dollari di danni (circa 20 miliardi di vecchie lire) alla società armatrice della Stockolm che ne pretendeva  due dagli italiani per il pagamento delle riparazioni alla prua della sua nave. Erano seguite numerose sedute pubbliche con le testimonianze di tutti i protagonisti dell’avvenimento. Dopo tre mesi di dibattiti inconcludenti l’inchiesta era stata sospesa per l’accordo intervenuto fra le due società armatrici.

Com’è arrivato Carrothers ad attribuire, adesso, la colpa dello speronamento alla nave svedese? Semplice. Egli si è basato su un elemento incomprensibilmente trascurato dalle tante inchieste “ufficiali”:  l’esame dei grafici dei registratori di rotta di entrambe le navi, forniti a suo tempo dalle parti in causa e messi a verbale in tribunale. Questi registratori di rotta (tecnicamente sono indicati con il nome di “course recorder“) sono l’equivalente delle “scatole nere” degli aerei; strumenti che registrano minuto per minuto la rotta e le varie manovre eseguite consentendo di ricostruire la condotta tecnica e gli eventuali errori commessi

Ordinò di “accostare” e fu la fine

L’esame accurato dei due grafici ha fornito dei risultati indiscutibili. “La responsabilità della collisione era della Stockolm, la manovra dell‘Andrea Doria era corretta e la sola possibile: a commettere il grosso errore fu l’ufficiale svedese Ernest Carstens-Johannsen”, dice in sostanza l’esperto americano. “Eppure, anche se non esplicitamente, la colpa venne addossata a mio fratello. Lui fu subito messo in pensione; gli svedesi, invece, ordinarono un’altra nave ai cantieri italiani, quella che sarebbe stata la loro ammiraglia. Fu varata l’anno successivo, qui a Genova, quasi sotto le finestre della casa di Piero. E il comando venne affidato, per premio, proprio all’ex comandante della Stockholm“, si lamenta Guido Calamai.

Le conclusioni di Carrothers poggiano su precisi rilievi tecnici. Al momento della sciagura la Stockolm aveva il radar funzionante sulla portata di 5 miglia mentre Carstens, solo in servizio sul ponte, era convinto di averlo sulla portata di 15 miglia.  L’ufficiale svedese riferì poi che al momento di ordinare il primo cambiamento di rotta, cioè sei minuti prima della collisione, il radar rivelava l’Andrea Doria a 12 miglia di distanza. La “scatola nera” della Stockolm rivela il suo clamoroso errore: in realtà,  a sei minuti dall’urto, la nave svedese si trovava a 4 e non a 12 miglia da quella italiana. Sempre per lo sbaglio del suo radar, Carstens si credette a 6 miglia quando ormai era a 2 soltanto. In  questo momento egli ordinò l’accostata a destra di 22 gradi e mezzo e portò la Stockolm sulla rotta di collisione con l’ Andrea Doria“.

Che l’ufficiale svedese non avesse la coscienza a posto lo dimostrò già in occasione dell’istruttoria quando si era difeso dicendo cose “paradossali”. Egli indicò addirittura l’Andrea Doria a distanza di pochi secondi: così lontani che per raggiungerli il transatlantico italiano avrebbe dovuto compiere un enorme giro a S nientemeno che alla velocità di 2500 chilometri orari. Gli stessi inquirenti avevano fatto notare all’ufficiale svedese che “buona parte della sua testimonianza era non veritiera”.

E allora perché la compagnia armatrice italiana non aveva contestato questa dichiarazione assurda?

Anche per questa domanda Carrothers ha una risposta pronta: “Per motivi di soldi”. La somma che le due società armatrici rischiavano di sborsare per le richieste dei passeggeri danneggiati era di 80 milioni di dollari, circa 50 miliardi di lire. Fu così che gli avvocati ritennero più prudente abbandonare la ricerca della verità e delle colpe ripiegando sulla clausola della “limitazione di responsabilità”. In sostanza significava ridurre a 6 milioni di dollari il complessivo risarcimento dei danni: 2 milioni li avrebbe sborsati l’Italia e quattro la società svedese.

“Non voleva vedere il mare”

Per i Calamai non importa molto il motivo per cui gli italiani hanno preferito tacere sulle colpe. Se per il “complotto assicurativo” o perché, come aggiunge qualcuno, gli svedesi potevano dimostrare che i compartimenti stagni della nostra ammiraglia non erano del tutto perfetti e se la cosa fosse stata resa pubblica l’intera nostra industria navale avrebbe subito un pericoloso contraccolpo.

“L’unica cosa per noi importante è  che Piero, da quell’esperienza, ne venne fuori distrutto”,  prosegue Guido. “Si ritirò nella sua casa a due passi di qui con la moglie, Anna, che adorava. Il mare, da allora,  non ha più voluto vederlo nonostante l’avesse a due passi. Così aveva pregato i membri del suo equipaggio di lasciarlo solo, di non fargli visita”.

“Anna, sua moglie, morì nel marzo del ’72, Fu una cosa improvvisa, atroce. La  lasciò sorridente in casa, intenta ad apparecchiare la tavola, per andare a comprare i giornali. Al ritorno, mezz’ora dopo, aveva trovato la tavola ancora in disordine e la moglie morta. Era stato un brutto colpo, ma noi Calamai, a questi tiri mancini della malasorte, ci avevamo fatto il callo. Bruno, un altro nostro fratello, dirigente d’azienda, ci  è morto a soli 31 anni per un incidente automobilistico, nel 1938 in Africa orientale: in un periodo e in un luogo in cui per contare le auto in circolazione sarebbero bastate le dita di una mano. E poi l’assurda scomparsa di Marco, l’ammiraglio caduto in mare  nel corso di un’esercitazione al largo della Sardegna.  Ma in Piero, dopo l’affondamento della ‘sua’ nave, le capacità di reazione si erano affievolite. Il suo fisico resse un mese dopo la morte di Anna.  Due giorni prima della morte gli ieri arrivata una lettera dagli Stati Uniti: era di Carrothers,  gli si  preannunciavano i insultati dell’inchiesta. Non fini di leggerla. La buttò in un cestino. Che Piero Calamai fosse innocente poteva essere una novità per gli altri. Lui lo sapeva già”. []

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