PRENDETE UN CACCIATORE DI STORIE,
UN POETA DEL CINEMA E UN GRANDE DIRETTORE DI GIORNALI.
MESCOLATE. AVRETE UN ROMANZO
DA NON PERDERE

“L’intensa, pensosa, tranquilla lettura

dei grandi libri fa bene alla salute mentale

e fa molto bene allo sviluppo

delle capacità di concentrazione e di pensiero critico”

(Sir Jonathan Bale,

docente di letteratura inglese a Oxford)

Invidio benevolmente all’amico e collega Nevio Casadio la banca dei ricordi che abitano la sua mente. Lui è un cacciatore di storie che ha lavorato a lungo con i maggiori autori della Rai, tra i quali Sergio Zavoli ed Enzo Biagi (esperienza che gli ha meritato tre premi Ilaria Alpi), e si è abbeverato a lungo a quella fontana dell’ immaginazione che è stato Tonino Guerra, il poeta del cinema dal quale ha ereditato, arricchendole, storie immaginarie e reali. Molte di queste sono confluite nelle 368 pagine del bellissimo romanzo che mi sta facendo compagnia da qualche settimana (Le stanze dei giardini segreti, prefazione di Carlo Verdelli, Vallecchi editore: nella foto d’apertura con l’autore). Protagonista: un anziano professore tornato a vivere nel mulino della memoria presso lo spettacolare passo del Furlo, tra Marche Romagna e Toscana, con la rubrica del suo telefono piena di nomi di persone che, con il passare degli anni, se ne sono andati “a dormire sulla collina”, in una Spoon River a due passi da casa.

Agenda e nomi che gli affollano la testa tanto da tracimare, perché “la vecchiaia è un cumulo di reminiscenze, negli ultimi anni di vita si trascorrono le giornate pensando al passato, isolandosi senza prospettiva alcuna di un futuro che non ci sarà o che sarà poca cosa”.

Così le idee e le storie frutto della lunga frequentazione con Tonino, dalla banda del Birro al farmacista appartato tra i suoi alambicchi, dalle Orsoline tartufi e puttane al partigiano Ulisse con la pedalina di Conselice (monumento alla libertà di stampa) diventano micce di una combustione lunga e affascinante, che ti accompagna attraverso piccole Italie, la Russia, l’Ohio o Parigi, fino al nuragico Pozzo sacro di Santa Cristina e ai giorni di pioggia e neve delle ultime pagine, con un emozionante gesto della signora dai capelli rossi  nell’acqua del torrente Torbello.

Un grande libro (intriso di poesia, fantasia e sensualità), di quelli evocati dal professor Bale, impreziosito da una prefazione firmata da Carlo Verdelli, incontrato da Nevio quando Carlo era direttore di Repubblica:  “una persona perbene il Carlo, la schiena dritta, lo sguardo mite, con il dono dell’ascolto. Per chiunque giornalista innamorato di quel che fa, impegnato in questo benedetto mestiere, che mestiere non è, è un onore lavorare con un direttore quale egli è”.

Da sempre sento parole poco rispettose verso le prefazioni, amate dalle case editrici ma spesso esagerate o addirittura inutili (“La prefazione è quella cosa che si scrive dopo, si stampa prima, e non si legge né dopo né prima”, era l’opinione di Pitigrilli). Dopo aver letto questa di Verdelli, mi pare non ci possono essere dubbi. Una prefazione ben fatta contribuisce a ingigantire il fascino di un’opera. Per questo credo di fare cosa utile proponendo quel morbido tappeto di parole che aiuta il lettore a orientarsi nelle stanze dei giardini segreti..

Carlo Verdelli (Milano, 15 luglio 1957), attualmente editorialista del Corriere della Sera. Nella sua lunga carriera di giornalista ha diretto i quotidiani la Gazzetta dello Sport e Repubblica e i settimanali Sette, Vanity Fair e Oggi. E' stato anche coordinatore dell'informazione Rai.

LA CHIAVE NASCOSTA

prefazione di Carlo Verdelli

La chiave è in una frase e ve la consegno subito così non perderete tempo a cercarla, anche se averla tra le mani già prima di cominciare la lettura potrebbe farvi pensare che il più è fatto, e che il mistero che ogni romanzo racchiude lo avete già scoperto e quindi è inutile sobbarcarsi la fatica, o il piacere a seconda dei punti di vista, di affrontare la camminata in direzione della cima, o comunque verso l’esito, che ogni storia in forma di libro contiene.

Ma non sono così malaccorto da rovinare l’avventura che sono stato chiamato a introdurre. La chiave che sto per consegnarvi è come il motorino elettrico nascosto, introdotto di recente sul mercato del mondo comodo, che facilita l’andare in bicicletta per i più pigri o più lenti. Non pedala per voi ma aiuta nell’abbrivio o nei momenti dove i muscoli diventano gelati per un più di stanchezza da sforzo. E allora, ‘sta chiave?

Eccola, lettrici e lettori. È a portata di mano in qualche riga sparsa nelle pagine: vedere, o almeno cercare di vedere, quel che ogni giorno capita di avere sotto gli occhi e non vediamo. È una chiave, questa, che come racconterà una donna facchino di Parigi con l’accento genovese (un po’ di pazienza, la troverete in corso d’opera) “può dare la felicità, come solo può fare una chiave in grado di schiodare una cintura di castità”.

Il punto è scoprire che cosa apre questa chiave, quali serrature, e dove ci porterà il racconto a mano a mano che si schiuderanno porte che nemmeno immaginavamo esistessero e che ci precipiteranno dentro universi che magari sulle prime ci sembreranno sconosciuti e che invece sono composti di molecole di vita che in qualche modo ci appartengono, soltanto mescolate secondo altre regole, seguendo lo spartito della fantasia.

Certamente non a caso l’autore, Nevio Casadio, ha scelto una frase di Federico Fellini come passaporto per questo viaggio: “L’unico vero realista è il visionario”. Preparatevi dunque a un itinerario insolito, fantastico, dove il confine tra il magico e il vero è sfumato, intrecciato, a volte capovolto, come nei sogni o, appunto, nelle visioni. Felliniano è troppo osare, ma rende l’idea. Un romanzo in forma di film, o un film in forma di romanzo. Si legge, si immagina, e leggendo e immaginando si comincia a vedere anche l’invisibile, che smette di essere tale una volta acchiappato per la coda e amabilmente carezzato.

C’era una volta, e c’è ancora, e se avrete la pazienza di andare avanti ci sarà per sempre, perché è uno di quei personaggi letterari che ti restano dentro come se tu li avessi conosciuti per davvero, un vecchio professore che lascia l’università dove insegna e va ad abitare un mulino abbandonato riempiendolo un po’ per volta di giardini segreti, stanze prima dedicate al lavoro o al riposo, e ora trasformate in regni dell’immaginazione, del dolore, della luce, della memoria, della malinconia, dell’infanzia rubata, delle gambe delle donne. E ancora della pioggia, delle candele, del vento, dei nomi e di altro che verrà. Tutti i personaggi che incontrerete, e ne conoscerete di veramente bizzarri, contribuiscono ciascuno la sua parte ad aiutare il creatore nell’invenzione di nuovi giardini, in una progressione di spazi tendente all’infinito. “Luoghi dell’anima dove incontrare sé stessi, lungo il filo del sogno”.

Lo spirito che anima la moltiplicazione di questi giardini che non c’erano risponde a un’esigenza comune, primaria, universale, eppure di rado esplicitata in modo cosciente. Che cosa resta dei libri che leggiamo, della musica che ascoltiamo, dei film che vediamo? E delle vicende umane che ci attraversano di continuo la strada dell’esistenza? Il professore Adriano Menconi architetta un modo meraviglioso per la conservazione delle tracce. Lascia la cattedra dove insegna, si trasferisce in un casolare nei pressi del passo del Furlo dove una volta si fabbricava il pane e comincia a fabbricare stanze che ospitano quello che di solito si disperde. E in quest’opera di ingegneria umana trova due aiutanti formidabili, anche loro piovuti da Mercurio: il candido Dario, uomo di mitezza disarmante, e la rossa Annà, donna di fiammeggiante ardore.

Insieme cercheranno i materiali per riempire di cose e di senso il labirinto di stanze che aspettano incredule la nuova e imprevista destinazione d’uso. Andare a caccia di storie, da dovunque provengano, qualsiasi tempo le abbia partorite. E questo romanzo è in fondo la storia di tante storie, raccolte come conchiglie sul bagnasciuga o sassi su un sentiero di montagna.

Vi imbatterete in un bordello tra i boschi gestito dall’Orsolina, detta Orsolona, provetta cuciniera di lasagne al tartufo, e poi nella rombante banda del Birro, composta di miserabili a bordo di scassate moto Guzzi o Harley Davidson sopravvissute a un finimondo. Patirete con Gelsomina la violenza subita in un confessionale e rivivrete con Olmo, un ingegnere navale finito per scelta tra capre e solitudini impervie, l’incanto di un lontano incontro al fiume quando, bambino, scoprì l’amore insieme a una creatura che gli rivelò il segreto erotico delle molliche di pane. Viaggerete tra Mosca, Parigi e l’Honduras, per tornare sempre all’aeroporto Federico Fellini di Rimini, attracco ideale di questo romanzo, che sembra cinema, e magari lo diventerà anche, scritto da un autore che viene da quelle parti lì, che è cresciuto ascoltando anche lui la stessa voce della luna del Maestro, che ha vinto tre volte il premio Ilaria Alpi e che ha speso la vita a cercare di raccontare con passione e partecipazione le vite degli altri.

L’impressione è che Nevio Casadio, detto Nev, faccia lo stesso lavoro del professore che si inventa la casa dei giardini segreti. Ma è giusto un’impressione, la mia. Adesso fatevi la vostra. Andate a vedere, cominciate a leggere, che poi in questo caso è la stessa cosa. (Carlo Verdelli)

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